è un prima e un dopo e a dividerli spesso è il tempo di un battito di ciglia. La vita è un susseguirsi di sliding doors, porte scorrevoli immaginarie tra le quali passiamo consapevolmente o meno, che cambiano per sempre il domani, e spesso anche il senso di ciò che è stato. Per Stefano quell'attimo ha coinciso con un fermo di polizia, per Ilaria con la vista del fratello steso sul lettino di un freddo obitorio. Da allora lei ha iniziato a lottare per lui e non ha mai smesso, nonostante i continui schiaffi, giudiziari e non, alla dignità di una famiglia intera, dalla quale ci sarebbe tanto da imparare. Oggi, con il processo Cucchi Bis che sembra finalmente volgere verso la verità, la storia di questo ragazzo fragile e sfortunato vittima di una violenza senza spiegazioni è pronta a varcare i confini nazionali raccontata dal film di Alessio Cremonini Sulla mia pelle, proiettato alla 75esima edizione del Festival del cinema di Venezia e distribuito in 190 Paesi. «È qualcosa di enorme che non avrei mai potuto immaginare», ci dice Ilaria Cucchi, la sorella che non si è mai arresa e che ha sempre cercato la verità.
DOMANDA. Ilaria, hai già visto il film? Che impressione ti ha fatto?
RISPOSTA. Sconvolgente, rivedere e quindi vivere indirettamente quelli che sono stati gli ultimi giorni di vita di mio fratello mi ha toccata profondamente, anche per merito dell’interpretazione perfetta di Alessandro Borghi che si è calato in modo magistrale nella parte, tanto da sembrare davvero lui. Osservare sullo schermo i momenti che in questi anni ho raccontato tante volte è stato sicuramente difficile, ma allo stesso tempo la conferma che non essermi mai stancata di urlare a gran voce quella verità ostinatamente negata è il motivo per cui non è stato messo tutto a tacere.
Tu e i tuoi genitori siete stati coinvolti nella stesura della sceneggiatura?
Assolutamente. Fin da subito il regista ha preso contatto con noi cercando di capire come fossero andate le cose, in modo sempre molto discreto, senza mai invadere i nostri spazi e la nostra sensibilità.
Cosa pensi dell’interpretazione del tuo ruolo da parte di Jasmine Trinca?
Jasmine è eccezionale sia come attrice che come persona. Si è sempre dimostrata molto vicina alla nostra causa e ai valori nei quali crediamo e per questo non potrei essere più felice che la scelta sia ricaduta su di lei.
Vi siete incontrate?
Sì ed era già successo diverse volte anche in passato, in occasione del memorial dedicato a mio fratello e di varie iniziative promosse dall’associazione Stefano Cucchi Onlus che ho fondato, e lì ho avuto modo di conoscerla e apprezzarla. Quando si tocca la nostra sofferenza sono felice che a farlo siano persone di questo genere.
Credi che la costante attenzione mediatica riservata alla vostra causa abbia contribuito alla riapertura del caso e a non far cadere la vicenda nell’oblio?
Senza alcun dubbio. Fino a quando grazie al procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone le indagini non sono state condotte nella giusta direzione, nelle aule di tribunale abbiamo potuto contare solo sulle nostre forze. Fuori però non siamo mai stati soli, ma circondati dall’affetto delle persone comuni, da chi ha scritto libri o girato documentari e dalla sensibilità e presenza dei giornalisti che non hanno mai spento i riflettori su di noi. Questo film è uno dei tasselli più significativi in tal senso, qualcosa di enorme che non avrei mai potuto immaginare.
La diffusione, tra sale cinematografiche e Netflix, è prevista in circa 190 Paesi, credi che questo possa aiutare altri Stefano Cucchi nel mondo?
Certamente. La vicenda in tutta la sua drammaticità sta per uscire dai confini nazionali e questo mi rende davvero felice. Non perché il suo volto sia destinato a diventare celebre, ovviamente, ma perché spero che questa storia possa costituire un monito.
Il processo Cucchi Bis vede accusati per omicidio preterintenzionale i tre agenti che lo arrestarono, Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, oltre al maresciallo Roberto Mandolini per calunnia e falso e Vincenzo Nicolardi che, insieme a Francesco Tedesco, risponde dei reati di calunnia nei confronti di tre agenti della penitenziaria precedentemente processati per la stessa vicenda e poi assolti. A che punto è il procedimento?
Volge verso una fase decisiva. Ormai sta emergendo la verità ed è una verità raccapricciante, che racconta ciò che è stato fatto a un ragazzo senza difesa, da vivo ma anche una volta morto e non ultimo quello che abbiamo subito tutti noi parenti. Fin dall’inizio è stata messa in piedi una copertura ignobile verso gli agenti coinvolti, quando contemporaneamente c’era una famiglia che in quei sei giorni in cui il proprio caro stava morendo si era affidata allo Stato, ponendo nelle mani delle istituzioni la salvezza stessa di un figlio e un fratello. Inizialmente, quando attribuivo anche a un mio fallimento come sorella l’epilogo di questa vicenda, non avrei mai potuto immaginare quello che realmente era successo.
Nel corso del primo processo, da te più volte definito «il processo sbagliato», le cose raccontate furono ben diverse.
Dal momento in cui ci è stato permesso di vedere quel che restava del suo corpo steso sul tavolo dell’obitorio è iniziata la farsa. In aula ho sentito parlare di verbali falsificati, fatti riscrivere perché le descrizioni di come era stato ridotto erano troppo dettagliate. Tutto questo è allucinante: chi avrebbe mai potuto credere che si potesse verificare un episodio del genere? Io, da cittadina per bene, no.
Pochi giorni fa hai fatto la tua deposizione, quanto è stato difficile e quanto invece, paradossalmente, ti ha reso più forte?
Indubbiamente mi sono tolta qualche sassolino dalla scarpa, anche se ogni volta che parlo di ciò che è successo il dolore rivive. Quel giorno è stato durissimo anche perché la testimonianza è durata diverse ore, ma credo che ogni mio sacrificio non sia nulla rispetto a quello di Stefano. Tutto questo glielo dovevo e glielo devo ancora.
Qual è il tuo stato d’animo adesso?
Sono per molti versi positiva. Non dico che la strada sia in discesa, il processo è ancora lungo e difficilissimo perché chi difende i colpevoli, che fino a ieri sostenevano che la vittima fosse caduta dalle scale invece di essere stata pestata violentemente, è intenzionato a usare tutti i mezzi possibili. La verità però è troppo chiara ed evidente e oggi vedo finalmente anche nella procura la stessa determinazione che ha sempre avuto il nostro avvocato nel voler farla emergere.
Cosa pensi delle recenti dichiarazioni di Giorgia Meloni che vorrebbe eliminare il reato di tortura per permettere alle Forze dell’Ordine di «svolgere meglio il proprio lavoro»?
Credo che la Meloni ci stia dicendo in modo evidente che per fare l’agente di polizia e appartenere alle forze dell’ordine si debba per forza picchiare. Chi come me ha una visione differente dalla sua sostiene il contrario e sa benissimo, senza dimenticarlo mai, che non tutti i poliziotti sono dei violenti. Purtroppo nel nostro Paese c’è l’enorme problema culturale di non voler ammettere che a volte certi episodi avvengono e che per arginarli è necessaria una legge seria ed efficace, che non è sicuramente quella attuale. E soprattutto è fondamentale chiamare il fenomeno con il proprio nome: tortura.
«Si tratta quasi sempre di storie che toccano in sorte i cosiddetti ultimi. E degli ultimi non importa mai nulla a nessuno»
Con la Stefano Cucchi Onlus vi occupate di casi simili, come sta andando?
Molto bene. Siamo principalmente un punto di riferimento per le famiglie che, come è successo alla mia, si trovano da un momento all’altro catapultate in una realtà terribile e più grande di loro, che non conoscono e non sanno come gestire. La nostra è un’associazione giovane che ha ancora tanta strada da fare ma tutto il team che la anima, composto quasi esclusivamente da donne, è determinato a portare avanti questa piccola battaglia di dignità. Ricordo ancora benissimo la sensazione che ho provato quando tutto è iniziato: oltre al dolore c’era il senso di impotenza e panico dato dal non sapere a chi rivolgermi e cosa fare. Speriamo quindi nel nostro piccolo di poter dare una mano e rappresentare un’ancora alla quale aggrapparsi.
Quante richieste di aiuto vi arrivano? Si può dire che quello della famiglia Cucchi non sia un episodio isolato?
Purtroppo sì, sono tanti quelli che si rivolgono a noi, nella maggior parte dei casi per denunciare soprusi che si consumano nel disinteresse generale. Si tratta quasi sempre di storie che toccano in sorte i cosiddetti ultimi. E degli ultimi non importa mai nulla a nessuno.
Trattate anche casi di violenza sulle donne?
Qualche volta sì, ma fino ad ora si sono rivolti a noi principalmente famigliari di vittime di abusi o di vicende carcerarie poco chiare.
Il tuo essere sempre in prima linea ti ha portato ad avere a che fare con molte persone comuni, com’è il tuo rapporto con loro? Sia nella realtà che attraverso i social network.
Dalla gente ho sempre sentito molta solidarietà e soprattutto vicinanza. Colgo spesso nelle parole e negli sguardi di chi incontro per strada o con i quali comunico virtualmente un senso di rivalsa nei confronti dei soprusi anche piccoli che ognuno di noi è costretto a subire quotidianamente. Mi rendo conto come ogni nostra piccola vittoria sia motivo di gioia e speranza per tante persone normali e per bene che si sono affezionate a me e alla mia famiglia e mi ringraziano.
Hai una figlia femmina. Che mondo speri si trovi a vivere quando sarà grande e cosa cerchi di insegnarle ogni giorno?
Nel mio piccolo faccio quello che posso per lasciarle un ambiente in cui crescere e vivere che sia meno ingiusto e non più preda della prepotenza di chi detiene il potere.
letteradonna