Prima lezione sulla giustizia penale
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Prima lezione sulla giustizia penale   

09/04/2020 


Giudicare: un compito necessario e impossibile ad un tempo.

Necessario, soprattutto quando abbiamo a che fare con fatti di reato, perché una società non può lasciare privi di conseguenze comportamenti incompatibili con la sua ordinata sopravvivenza.
Impossibile, perché non siamo in grado di conoscere la verità. O, meglio, non possiamo mai avere la certezza di averla conseguita.
Da questo stallo nasce, già nelle prime aggregazionisociali, l’esigenza di stabilire un itinerario conoscitivo,che oggi denominiamo “processo”, alla fine del quale un soggetto “terzo” perviene ad una conclusione che la comunità è disposta ad accettare come vera, perché
conseguita con il metodo ritenuto più affidabile per pronunciare una decisione giusta. Il processo è come uno stretto ponte tibetano che consente di passare dalla res iudicanda (cioè il fatto da giudicare) alla res iudicata (cioè la decisione sulla esistenza del fatto e sul
suo rilievo penale), che è destinata a valere pro veritate per l’intera collettività. L’immagine, però, non deve ingannare, trasmettendo anche l’idea di una struttura elementare, di una rudimentale linearità del percorso conoscitivo. Chiamato a ricostruire un accadimento del
passato, il processo deve cercare, acquisire e valutare i reperti materiali e mnestici che ogni fatto lascia nel mondo circostante.
Nel concepire questo itinerario giudiziario, il legislatore deve quindi affrontare e risolvere complessi e delicati problemi. Quali, ad esempio: chi può procedere alla loro ricerca, e con quali poteri; quali sono le conseguenze dell’inosservanza delle regole processuali; quando, e in che misura, i diritti individuali (libertà personale, segretezza delle comunicazioni, inviolabilità del domicilio, ecc.) debbono cedere alla esigenza di accertamento dei reati; come si assumono le prove, specie quelle dichiarative (provvede unilateralmente la parte che è interessata a produrle in giudizio o si formano nel confronto dialettico dei protagonisti del procedimento davanti a un giudice? E in questo secondo caso, necessariamente dinanzi al giudice che dovrà emettere la sentenza?); quali garanzie e regole di giudizio devono assistere e guidare la decisione finale (come perimetrare l’ambito cognitivo del giudice, quali limiti di utilizzazione del materiale probatorio questi è tenuto a rispettare,come vada risolto il dubbio sulla colpevolezza)?; se l’irrevocabile decisione finale, la res iudicata, deve restare immutata in omaggio ad esigenze di certezza, anche a fronte della sopravvenienza di prove che ne attestano la erroneità.
Il ponte del processo non è quindi soltanto un’opera di “ingegneria normativa”, un intreccio di regole e diforme. Affinché abbia tenuta sociale è necessario chela collettività riconosca che lo stesso costituisce la via meno imperfetta per cercare di attingere la verità nel contesto storico, culturale e scientifico in cui è chiamato ad operare: soltanto così il prodotto finale, la sentenza,si rende eticamente accettabile e socialmente accettato,nonostante la sua insopprimibile fallibilità.
Forse prendendo un po’ troppo alla lettera il titolo di questa serie, ho immaginato di avviare un’ideale conversazione tra chi da molto tempo sta cercando di orientarsi nel complesso universo della giustizia penale e chi per curiosità, interesse o studio intende avvicinarsi
ad esso per la prima volta. Ho cercato di intuire cosa valesse la pena trasmettere in un’unica, pur lunga lezione;cosa sarebbe auspicabile che restasse a chi avesse avuto la pazienza di “ascoltarla”. Non potendolo chiedere ai destinatari, come pure molto mi sarebbe piaciuto fare,
ho almanaccato diverse possibili impostazioni. Sempre,il rapporto tra le cose che ci sarebbero da dire e il “tempo” per dirle mi è risultato sconfortante, qualunque approccio mi è parso lasciare una frustrante sensazione di macroscopica incompiutezza.
L’unico modo per uscire da tale realistica e paralizzante constatazione è considerare che in questa nostramateria risulta molto più importante capire che sapere,avere un’intelligenza critica dei problemi piuttosto che apprendere tecnicismi e procedure. Mi sono risolto,
dunque, sperando di non aver sbagliato, a cercare dioffrire una visione d’insieme della giustizia penale, focalizzando l’attenzione dapprima sulla scelta di fondo che il “necessario azzardo” del giudicare impone ad ogni ordinamento, cioè la scelta di un metodo condiviso di
conoscenza; quindi, sul metodo che il nostro ordinamento ha ritenuto meno inadeguato; infine, sulle sue più qualificanti implicazioni processuali.
Nel percorrere questa strada, non mancherò di estendere lo sguardo – evadendo dalla trattazione tradizionale della materia – su alcune tematiche oggetto diacceso dibattito e oramai di cronica attualità affinché si possa meglio cogliere quanto profonde siano le interconnessioni tra il modo di intendere la giustizia e il modo di vivere la democrazia. In particolare, rivolgerò una preoccupata attenzione alla crescente disaffezione,se non ormai alla sfiducia, nei confronti della giustizia penale. Si tratta di una tendenza, che – ove non contrastata – è destinata a incrinare la coesione sociale. Una tendenza soprattutto dovuta alla distanza, di tempi e di contenuti, che la collettività registra tra le sue aspettative e la risposta giurisdizionale; e che la induce a coltivare la fallace e pericolosa idea di poter meglio conoscere la verità prescindendo dal troppo impegnativo e troppo lungo percorso imposto dal “ponte tibetano”.
Una distanza che a sua volta dipende in gran parte dalla difficoltà di spiegare le ragioni e la complessità del facere iustitiam ad una collettività spesso stretta tra il gergo sensazionalistico e approssimativo dei media e il linguaggio specialistico, talvolta esoterico, dei magistrati, infarcito di spiegazioni “intransitive”, che talvolta sembrano scritte ad arte per allontanare il popolo dalla giustizia amministrata in suo nome.
Anche per questa consapevolezza, le pagine che seguono vogliono costituire un tentativo di affrontare i problemi più delicati con un linguaggio che ricorraal lessico specialistico soltanto quando risulti assolutamente indispensabile e comunque mettendo a disposizione del lettore un glossario, da usare a mo’ di pronto soccorso terminologico, per evitare che la mancata conoscenza di un vocabolo o di una locuzione pregiudichi la comprensione del discorso.
Come si vede, si tratta complessivamente di un progetto assai ambizioso, probabilmente velleitario, di cui spero si vogliano apprezzare se non i risultati, almeno