Gentile direttore,
ho apprezzato particolarmente l’attenzione posta dal suo giornale al tema delle carceri, rispetto al quale sono intervenuto più volte dal giorno del mio insediamento. La questione deve rimanere al centro dell’attenzione delle istituzioni, della politica e della società, perché è anche attraverso il modo in cui si struttura l’ordinamento penitenziario e si tutelano i diritti delle persone detenute che si misura il grado di maturazione democratica di un Paese. Nei primi mesi di legislatura si è trattato del tema che è oggetto di un processo di riforma dell’ordinamento penitenziario, avviato nella precedente legislatura. Qualche giorno fa il Governo ha inviato alle Camere un nuovo schema di decreto che attua parte della delega originaria. Non entro nel merito del testo – ora alle Commissioni parlamentari per il parere – e mi limito a considerare che la riforma in discussione, più che un punto di arrivo, costituisce il tassello di un percorso.
Ormai da tempo, fra le associazioni e gli operatori del settore ha preso vita un dibattito sulla cultura della pena e del modello penitenziario. Siamo dentro un processo di cambiamento culturale e di paradigma: si parla sempre meno di "pena" e sempre più, al plurale, di "pene", come del resto dice la Costituzione; si propone l’introduzione di programmi di recupero che consentano ai detenuti di riconnettersi in anticipo alla società esterna; si assiste a un ripensamento dei tempi e degli spazi all’interno delle carceri, per umanizzarle; la custodia tradizionale cede il passo al paradigma del regime aperto e della sorveglianza dinamica.
La politica e le istituzioni hanno la responsabilità di intercettare fino in fondo il cambiamento culturale e di paradigma in atto, per metterlo al centro del dibattito, in cui ritengo che anche il linguaggio debba mutare mettendo al bando espressioni che avvelenano il confronto sul tema senza contribuire ad analizzarlo nella sua complessità.
Procedere verso una nuova visione significa anche contribuire a risanare un’antica frattura: quella fra carcere e società, fra carcere e territorio. Perché il carcere è periferia in tutti i sensi possibili: fisica, umana, esistenziale.
Come cittadini chiediamo certezza della pena – perché da questo principio passano la sicurezza e la nostra fiducia nel sistema giudiziario – ma non possiamo confondere pena certa con pena afflittiva. Inoltre se la Costituzione parla di pene, è perché possono esservene diverse, perché a seconda del reato e della persona possono essere definiti specifici percorsi rieducativi. Le statistiche attestano tra l’altro che le misure alternative alla detenzione producono minori tassi di recidiva, e quindi più sicurezza per i cittadini. Né possiamo evitare di chiederci che persona sarà il detenuto una volta uscito dal carcere. Sarà certamente una persona migliore se avrà trovato la possibilità di costruire un orizzonte nuovo, seguendo percorsi di formazione e risocializzazione.
A Poggioreale, qualche settimana fa, ho visto due modelli di carcere convivere nello stesso spazio. Uno guarda al miglioramento della qualità del tempo e degli spazi dei detenuti; l’altro è fatto di sovraffollamento e degrado. Dobbiamo trasformare il primo modello in regola di sistema.
Voglio infine richiamare l’attenzione su una ferita aperta del nostro sistema detentivo: la tutela della salute dei detenuti, in particolare rispetto ai disturbi mentali, che possono sfociare in gesti drammatici purtroppo costantemente sotto ai nostri occhi. Passi in avanti sono stati fatti, ma serve trattare la salute dei detenuti come quella di tutti gli altri cittadini. Anche da questo passa la civiltà del sistema penitenziario, e quindi la maturità democratica del Paese.
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