Nell’immaginario comune, si tende a identificare l’infermiere come il professionista che opera solo nelle strutture ospedaliere. In realtà, ci sono molti altri casi che necessitano della presenza costante di un operatore sanitario, come per esempio il carcere. Abbiamo intervistato Monica Pusceddu, infermiera che opera nel settore della sanità penitenziaria della USL Toscana Centro.
Qual è la situazione generale degli infermieri in carcere? E in Toscana?
«Essere infermiere in carcere oggi è una sfida, sia professionale che etica, perché, come ci ricorda l’articolo 3 del nuovo codice deontologico, “l’infermiere si astiene da ogni forma di discriminazione e colpevolizzazione nei confronti di tutti coloro che incontra nel suo operare”. Ci troviamo a dover gestire sia culture differenti dalla nostra che persone socialmente svantaggiate per cui, a prescindere dal reato commesso (del quale non dobbiamo essere a conoscenza, né eventualmente tenere conto), è fondamentale la presa in carico del paziente.
L’utenza attuale del carcere di Sollicciano comprende circa 800 detenuti (uomini, donne, bambini e transex) per cui l’erogazione del servizio non può non tener conto di diverse dinamiche. Il carcere fiorentino è nato negli anni ’80 e ha una forma simile ad un giglio, con un cuore centrale e delle ramificazioni dove sono situate le nostre infermerie e le sezioni detentive. Sono diverse le problematiche che ci ritroviamo ad affrontare: dalle lunghe distanze date dai corridoi che separano l’infermeria da alcune zone del carcere dove potrebbero trovarsi i pazienti da soccorrere, agli interventi infermieristici che vanno sempre coordinati con la polizia penitenziaria per ragioni di sicurezza. Gli ambulatori non sono totalmente sotto la gestione dell’USL Centro anche dal punto di vista della manutenzione, per cui molto spesso, per interventi urgenti (come per esempio allagamenti, infiltrazioni, imbiancature e illuminazione elettrica) dobbiamo rivolgerci agli uffici tecnici dell’amministrazione penitenziaria che non sempre ha i mezzi per sopperire ad alcune esigenze. Inoltre gli spazi a noi riservati sono angusti, fatiscenti e talvolta con poca illuminazione e l’assistenza da erogare diventa difficoltosa anche per queste concause».
Quali sono le difficoltà maggiori?
«Con l’aumentare dell’età media anche in carcere entrano detenuti più complessi dal punto di vista della cronicità; abbiamo attivi diversi percorsi con i quali prendiamo in carico il paziente e leghiamo la nostra assistenza con quella dei servizi territoriali. L’infermiere diventa quindi punto di rifermento per l’utente e costruisce attorno alla relazione di fiducia con il detenuto l’assistenza che ne deriva.
La complessità assistenziale è data anche dalle diverse etnie che compongono il bacino di utenza e dal livello culturale e sociale medio-basso: spesso i detenuti provenienti dall’Africa sub-sahariana hanno frequentato a malapena le scuole elementari e non avendo beneficiato nel loro paese di un servizio sanitario strutturato si ritrovano per la prima volta ad avere a che fare con una istituzione sanitaria ben definita.
Il detenuto che si vede privare della propria libertà utilizza spesso degli atteggiamenti manipolatori nei confronti del personale sanitario, mettendo in atto gesti autolesivi, talvolta di poco conto, talvolta di grave entità come i tentativi di suicidio, che nell’ultimo anno purtroppo in alcuni casi sono stati portati a termine.
La voglia di libertà, l’istituzionalizzazione a cui vengono sottoposti i ristretti e le regole ferree da seguire a volte superano la salvaguardia della propria salute, perciò il detenuto si trova a fare richieste non conformi, molto spesso dal punto di vista terapeutico, che l’infermiere o il medico gli devono negare. Nella relazione di fiducia paziente/infermiere quando queste richieste non vengono soddisfatte capita che il detenuto risponda con aggressioni sia verbali che fisiche».
Quali sono le soddisfazioni più grandi?
«La soddisfazione più grande è che nel corso degli anni ho potuto essere parte attiva del cambiamento dell’assistenza infermieristica all’interno del carcere. Oggi sono attive più di 30 procedure e altrettanti percorsi. L’assistenza che viene erogata ai cittadini rispecchia quasi in toto quella fornita nel presidio, proprio perché il detenuto deve poter avere gli stessi diritti.
Un importante percorso attivo è il monitoraggio delle malattie infettive: questo fa sì che i pazienti vengano intercettati e curati subito ma anche che ci sia una risonanza positiva sulla cittadinanza nel momento in cui il detenuto tornerà libero. Lavorare a contatto con una popolazione fragile e socialmente svantaggiata spesso è una scelta consapevole del professionista che viene a lavorare in carcere; vedere tanti giovani colleghi che si approcciano a questa realtà è stimolante e vedere la stima e il riconoscimento negli occhi di un detenuto è la soddisfazione più grande».
Sotto quali aspetti dovrebbe migliorare il servizio, anche in relazione all’ultimo episodio di aggressione avvenuto al carcere di Sollicciano lo scorso 14 agosto?
«Gli aspetti da migliorare sono molteplici: la base di tutto è sicuramente la formazione, poiché attualmente si parla troppo poco di infermiere penitenziario e anche all’interno delle università dovremmo iniziare a orientare i futuri professionisti verso questa realtà. Quello che potrebbe aiutare nel miglioramento della qualità dell’assistenza è senz’altro una sempre maggiore interazione e un confronto con gli altri servizi, sia territoriali che ospedalieri.
Non da meno è il problema della sicurezza che è costantemente al vaglio dell’amministrazione penitenziaria e dell’azienda sanitaria che necessariamente devono coordinarsi e integrarsi al fine di ridurre al minimo il rischio. Oggi dovremmo puntare molto di più sull’informazione su casi limite come l’aggressione dello scorso 14 agosto, per poter formare i colleghi in modo che sappiano affrontare situazioni critiche e di conflitto con l’utenza».
Nurse Times