L'occupazione in ogni ambito produce salute mentale, e per questo è importante che negli istituti penitenziari venga offerta la possibilità di professionalizzarsi, imparare un mestiere, studiare, avere un lavoro retribuito, in modo che chi sconta la pena possa strutturare la fiducia in sé stesso, negli altri, nelle istituzioni e nello Stato. Ne abbiamo parlato con la psichiatra Adelia Lucattini.
Carcere e lavoro, necessità di scontare la pena e di rendersi al contempo utili alla società. Il dibattito che ruota intorno all'importanza dell'attività lavorativa per l'effettivo reinserimento dei detenuti è ampio e complesso: già nel 1764 lo scrittore illuminista Cesare Beccaria, nonno di Alessandro Manzoni, pubblicò il saggio "Dei delitti e delle pene", pietra miliare della "giusta pena" e del concetto di riabilitazione dei carcerati, fornendo con questo libro anche preziose indicazioni in materia di "prevenzione".
I progetti del 2016. Poche settimane fa il Carcere di Parma ha presentato un progetto innovativo, "Sprigioniamo il lavoro", che punta a offrire lavoro a 16 detenuti entro il prossimo anno attraverso la costituzione, da parte di cinque aziende (Gruppo Genis Proges, cooperativa sociale Biricca, GSC Srl, Multiservice società cooperativa, Bowe 2014 srls) della Newco, società che si occuperà della gestione di una lavanderia all'interno del penitenziario. Un'iniziativa che si affianca a molti altri progetti interessanti, tutti realizzati grazie al lavoro dei detenuti, come la creazione di prodotti e idee regalo che coniugano innovazione tecnologica e maestria artigianale nel Carcere di Bollate, o il corso di formazione per giovani pizzaioli realizzato all'interno dell'Istituto Penale per Minorenni di Airola (in provincia di Benevento) grazie al sostegno economico della Fondazione Angelo Affinita.
"Riabilitazione sociale", non "lavoro forzato". Ma perché creare opportunità di lavoro all'interno del carcere è così importante per i detenuti, e quindi per l'intera società? Secondo i dati del ministero della Giustizia, i detenuti che lavorano nelle carceri per distribuire i pasti, come impiegati nell'ufficio spesa o come addetti alle pulizie in Italia sono più di 10mila (altri 1400 lavorano per soggetti esterni all'amministrazione, tra cui le cooperative sociali). "La legge Smuraglia sull'introduzione del lavoro in carcere (22 giugno 2000, n° 193 - "Norme per favorire l'attività lavorativa dei detenuti") - spiega Adelia Lucattini, psichiatra psicoterapeuta e psicoanalista - è senz'altro un'iniziativa positiva purché tenga conto che il lavoro va inteso come "riabilitazione sociale" e non come forma di coercizione o di lavoro forzato, cosa che potrebbe addirittura risultare controproducente ai fini di un reinserimento sociale dei detenuti. L'esperienza della riabilitazione psichiatrica ha insegnato che ogni forma di riabilitazione deve tenere conto della tipologia di paziente e della sua disabilità, considerando la reazione dell'ambiente alla disabilità del soggetto e operando quindi anche in ambito relazionale".
I rischi dell'inattività. Rimanere nell'inattività, aspettando che il tempo passi senza scopo, non avere nessuna occupazione intellettuale o manuale, non permette di riflettere sulla propria vita, su se stessi e sulle situazioni che hanno portato a vivere nell'illegalità o ad essere incarcerato: insomma, non aiuta a migliorarsi. "L'inattività - spiega l'autrice de "Il dolore dell'analista. Dolore psichico e metodo psicoanalitico" (Astrolabio-Ubaldini) - può portare a una cronicizzazione dei modi di pensare, delle qualità relazionali e degli stili di vita che, se non sono corretti, porteranno il soggetto a ripetere gli stessi comportamenti appena scontata la pena. Avere un'occupazione e svolgere un'attività durante il periodo in carcere permette dunque di evitare una cronicizzazione del disturbo anti-sociale che ha portato l'individuo a compiere il reato o i reati per cui è stato condannato".
Il carcere come luogo di morte. Il contatto con persone che delinquono abitualmente, e che quindi possono avere un disturbo sociopatico o antisociale, spiega ancora l'esperta, può determinare una sorta di "apprendimento" di alcuni stili di comportamento che poi porteranno a compiere reati anche più gravi, attraverso un processo di identificazione con l'aggressore in mancanza di una valida e sana alternativa in cui identificarsi, secondo il principio "faccio il male perché non conosco il bene": "Quando falliscono la legge, la riabilitazione e lo Stato là dove avevano già fallito la famiglia, la scuola, l'ambiente e il gruppo sociale come guida psicologica e morale, il carcere può essere un luogo di morte, della mente, della vita, della salute, delle prospettive", precisa Lucattini.
I benefici dell'occupazione. L'occupazione in ogni ambito produce salute mentale, e per questo è importante che negli istituti penitenziari venga offerta ai detenuti la possibilità di professionalizzarsi, imparare un mestiere, studiare, avere un lavoro retribuito, in modo che essi possano strutturare una fiducia in loro stessi, negli altri, nelle istituzioni e nello Stato. "In caso contrario - continua la psichiatra - potrebbe instillarsi o persistere un senso di desolante solitudine che spesso porta a ripercorrere strade note, non buone, non di rado più pericolose, vissute come l'unica possibilità per non sentirsi emarginati, persi, finiti, o per sentirsi, per quanto illusoriamente, 'qualcuno' ".
Guai a idealizzare il lavoro. D'altro canto, precisa l'esperta, anche un'eccessiva idealizzazione del lavoro come strumento di riscatto e rivincita può essere più fuorviante. In persone che non conoscono e non hanno fatto esperienza di questo tipo di emozioni o che non hanno una struttura psicologica che le sostenga, né sufficienza forza per rispettare regole imposte dall'esterno ma non interiorizzate, difficilmente il lavoro permetterà di mettere in discussione, le scelte di vita precedenti.
"Le scelte di vita - spiega Lucattini - possono essere messe in discussione solo se prima si è compreso come si è vissuto e perché e se quindi si è intravista e poi conosciuta personalmente la possibilità di vivere diversamente, per poi sperimentarla attraverso rapporti significativi con persone professionalmente preparate, umanamente equilibrate, realiste e capaci di trasmettere fiducia nelle possibili alternative, comprendendo fino in fondo la difficoltà dell'impresa. Solo al termine di questo processo maturativo si può essere in grado di abbracciarle e farle proprie, di difenderle dal sé stesso di prima, dall'ambiente da cui si proviene, e quindi di trasformarle in azioni reali nella vita quotidiana, in una nuova vita, anche fuori dal carcere".
Un processo lungo, un percorso possibile. Come ogni cambiamento, quello della riabilitazione dei detenuti attraverso l'attività professionale è dunque un processo che ha i suoi tempi, a volte anche lunghi, e che richiede un contatto assiduo e costante con professionisti della riabilitazione psicologica, sociale e lavorativa, che abbiano esperienza e che siano in grado di interagire con persone che di alcuni valori e situazioni sociali potrebbero non aver mai sentito parlare se non in televisione o al cinema, e che quindipotrebbero non aver mai considerato che la cosa potesse riguardarli personalmente. "È un processo che può iniziare dentro il carcere, ma che poi deve poter proseguire anche fuori. Perché è nella continuità che avvengono, si consolidano e stabilizzano tutti cambiamenti", conclude l'esperta.
di Sara Ficocelli - La Repubblica