Il 5 dicembre 2018 il nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini, ha inviato al personale del Dap le sue “Linee programmatiche”, con una circolare in cui invita “ad adottare tutte le iniziative per garantire la tempestiva esecuzione delle disposizioni”. Per fortuna nella Premessa del documento tali indicazioni sono qualificate solo come “tendenziali”, perché, se invece fossero effettive, rappresenterebbero sicuramente una drammatica battuta di arresto del lungo e faticoso cammino di attuazione dell’Ordinamento penitenziario in senso costituzionale e una tragedia per gli scenari di un sistema carcerario futuro. La Circolare restituisce un quadro eccessivamente desolante e caotico delle carceri senza tenere in nessun conto il passato più recente, caratterizzato dalla riduzione dei suicidi e degli autolesionismi, dall’adeguamento alle sentenze della Corte EDU e da tante pratiche virtuose promosse da quei territori oggi deprecati.
Il documento si presenta come il progetto di riorganizzazione, secondo criteri economici e di controllo verticistico del sistema, di una qualsiasi altra “macchina” amministrativa postmoderna e tecnologica, trascurando la specificità umana che connota “questa” amministrazione, deputata alla cura di persone in carne ed ossa, alla loro crescita responsabile ed attiva, e perciò orientata ai valori della Costituzione.
Alla programmata rigidità del sistema, monocentrico e standardizzato, non potrà che corrispondere un’inutile e dannosa inflessibilità verso i detenuti, con l’istituzione supplementare di “squadrette” di polizia penitenziaria – nuovi piccoli GOM (“gruppi di intervento operativo dotati di equipaggiamento idoneo ad affrontare ogni possibile evento critico”) – ed una maggiore applicazione di sanzioni disciplinari, sia con i divieti tipici del regime di sorveglianza particolare, sia con i trasferimenti da un penitenziario all’altro come strumento anomalo di punizione.
L’assetto prefigurato non è quello del carcere che rieduca, che responsabilizza per l’inserimento nel contesto sociale, perché mortifica il necessario pluralismo delle figure professionali penitenziarie. Un carcere improntato alla rigidità, con la previsione del monopolio dell’informazione attraverso la figura del Referente della comunicazione, la militarizzazione dei funzionari direttivi (copiando la legge di riforma della pubblica sicurezza del 1981), inquadrati nei ruoli della polizia penitenziaria.
Ulteriore elemento di separatezza dell’istituzione sarebbe l’implementazione della partecipazione a distanza dei detenuti alle udienze per evitarne la traduzione in nome dell’abolizione del fenomeno qualificato, erroneamente, “come tornelli o porte girevoli”.
In un siffatto contesto la “popolazione detenuta”, “i soggetti reclusi” verrebbero trasformati in “risorsa dell’amministrazione penitenziaria”. Il presunto miglioramento della “qualità di vita” si ridurrebbe, così, alla restrizione degli spazi intramurari di libertà mediante la revisione della sorveglianza dinamica, ad una scelta “allargata” dei canali televisivi ed al massiccio aumento del lavoro di pubblica utilità non retribuito, a tutto vantaggio delle carceri e degli uffici giudiziari. Ritornerebbe così la prigione come disciplinamento dei corpi.
In una situazione di ripresa – crescente, rapida e non casuale – di quel sovraffollamento che mortifica la dignità del mondo umano delle galere, ci si limita ad evocare indefinite “soluzioni di minor impatto finanziario”, dimenticando l’efficacia di una pur possibile sinergia con la Magistratura di sorveglianza per l’implementazione di quelle misure alternative alla detenzione che, comunque, rappresenterebbero una strategia diversificata del contrasto alla criminalità.
Il Manifesto