Evase da un carcere di Limmattal, vicino a Zurigo in Svizzera grazie alla complicità di una poliziotta penitenziaria che si era innamorata di lui.
La fuga d’amore si concluse in provincia di Bergamo dove il detenuto siriano e la poliziotta 32enne svizzera furono arrestati dai carabinieri rispettivamente per evasione e favoreggiamento
L’uomo rientrò quindi in carcere, ma per l’evasione non ottenne nessuna condanna. Perché? Presto, detto. In Svizzera, secondo l’articolo 310 del codice penale, è punibile chiunque libera detenuti o li aiuta nell’evasione. Non è tuttavia punibile con una pena aggiuntiva chi evade autonomamente da un istituto penitenziario. Una volta ricatturato, infatti, non deve temere alcuna sanzione penale. Questo perché viene rispettato il principio della loro Costituzione che sancisce l’irrinunciabile anelito umano alla libertà. Il carcere, infatti, rappresenta in ogni caso una violenza sull’individuo che, se ne ha la facoltà, è naturale tenti di sottrarsi ad una coercizione della sua libertà.
Ma non è solo la Svizzera a sancire questo principio. Anche secondo la Germania l’essere umano, per natura, tenderà sempre alla libertà, proprio per questa ragione perfino in una situazione di costrizione prevista dalla legge sentirà sempre l’impulso della fuga. E, in qualche caso, cercherà di metterla in atto. L’autorità ha il dovere di riacciuffare gli evasi dal carcere, ma non di punirlo con una ulteriore pena. Così come l’Islanda e Danimarca, ma anche Paesi non europei come il Messico.
In Italia invece, l’evasione è un reato contemplato dall’articolo 385 del codice penale con tanto di pena aggiuntiva da uno a tre anni. Lo stato di arresto o detenzione è presupposto del reato, si integra ogni volta che il soggetto evade da una struttura carceraria, dalla sua abitazione, o da qualsiasi altro luogo indicato nel provvedimento di restrizione. L’autore può essere la persona arrestata in flagranza di reato, chi è stato condannato in via definitiva all’arresto, alla reclusione o all’ergastolo, chi sconta una misura di custodia cautelare, agli arresti domiciliari o custodia in carcere o in casa di cura, i semiliberi che si assentino senza giustificato motivo per oltre dodici ore rispetto al momento del dovuto reingresso nel penitenziario e i detenuti che non rientrino da un permesso, che possono avere ottenuto per prendere parte a un’udienza, le persone fermate dalla polizia. Nelle carceri italiane, sempre più chiuse – mentre in realtà, secondo la Costituzione, devono avere anche il compito di proiettare verso la libertà chi ha commesso i reati -, il gesto suicidario compiuto dal detenuto può essere considerato come l’estremo atto di libertà, l’ultima forma di evasione di fronte una potenza coercitiva e limitativa, l’ideale di una vita liberata da una sofferenza rivelatasi ingestibile e insostenibile per colui che la patisce, ma al contempo un atto che dichiara – senza ambiguità, senza alternative – che la sofferenza è stata più forte dell’istinto di conservazione.
Ora, in nome del pericolo di evasione, come riportato dal Il Dubbio, è stata ordinata una stretta, un ulteriore inasprimento del controllo con tanto di nuova categoria di detenuti, ovvero coloro che “hanno una spiccata tendenza all’evasione”. Ma in realtà, come viene riconosciuto dalla Costituzione di diversi Paesi europei e non, la voglia di libertà è insita naturalmente in ogni uomo. Nel passato, quando il Diritto era un’opinione, in nome del controllo vennero realizzate carceri stile Panopticon. Un tipo di sistema in cui un unico guardiano poteva osservare ( optikon) tutti ( pan) i prigionieri in ogni momento, i quali non avendo la percezione di essere sorvegliati o meno, in virtù di questa “invisibile onniscienza”, avrebbero mantenuto una condotta retta e volta alla disciplina, nel rispetto delle regole previste dall’Amministrazione penitenziaria, proprio come se si trovassero sempre sotto osservazione, in ottemperanza al principio che “il potere doveva essere visibile e inverificabile”. Un ritorno a quei tempi, è sempre dietro l’angolo.