La «vera sicurezza, quella sociale, quella reale e duratura, non ha nulla a che vedere con l’apertura e la chiusura di un cancello: è qualcosa di molto più complesso e difficile, e consiste nel contrastare la recidiva».
Sono le parole del Commissario Manuela Federico, Comandante della polizia penitenziaria di San Vittore riportate dalle redazione di "Buone notizie" del Corriere della Sera.
Bisogna dunque adoperarsi per abbassare la percentuale (oggi intorno al 70 per cento) di coloro che, una volta espiata la pena, tornano a delinquere nella società. E per abbassare questa recidiva si è ormai constatato quanto, durante l’espiazione della pena in carcere, sia fondamentale «garantire una contaminazione tra dentro e fuori dal carcere»: il che - spiega Filippo Giordano, professore di economia aziendale alla Lumsa di Roma e di imprenditorialità sociale alla Bocconi di Milano - «significa costruire un sistema di relazioni che riempie di senso la quotidianità della persona privata della libertà, la promuove come possibile risorsa per la comunità, riduce la stigmatizzazione sociale e crea le condizioni per il reinserimento» quando la persona (che tale non cessa di essere solo perché rinchiusa dietro le sbarre) tornerà libera.
Se i negazionisti di questa verità (alla stregua degli antiscientifici negazionisti dei vaccini) possono intossicare il dibattito pubblico è anche per «quella carenza di monitoraggi» e per quella «mancanza di indicatori comuni e condivisi» rilevate nel 2013 dalla Corte dei Conti in tema di «rieducazione» (o meglio «educazione», come suggerisce il presidente di Cassa delle Ammende, l’ex pm Gherardo Colombo). Tuttavia già per esempio nel 2014 la ricerca degli economisti Giovanni Mastrobuoni e Daniele Terlizzese (in tandem con Il Sole 24 Ore) documentò che un anno in meno in un carcere solo «chiuso», e invece un anno in più in un carcere diverso (sul modello di Bollate) come dovrebbero essere tutti i 189 istituti italiani per rispetto della dignità della persona e per uso produttivo del tempo, riduce la recidiva di 9 punti percentuali, con significativo impatto anche economico. E adesso a colmare l’assenza (almeno per gli istituti di pena milanesi di San Vittore, Opera e Bollate) arriva «Creare valore con la cultura in carcere», rapporto dei professori Giordano, Francesco Perrini e Delia Langer per Icrios-Bocconi in collaborazione con il Dipartimento regionale dell’amministrazione penitenziaria ancora guidato da Luigi Pagano - da pochi giorni in pensione - insieme con la Fondazione Invernizzi e con il contributo di Fondazione Cariplo. Difficile agire bene se non prima si conosce meglio, e lo studio - costruito sull’elaborazione di un complesso questionario proposto ai referenti delle attività trattamentali - fa finalmente conoscere «chi promuove e gestisce cosa, le risorse impiegate, i detenuti destinatari delle attività, i risultati in termini di impatto sui detenuti e sugli stakeholders coinvolti».
I più evidenti sono «l’incremento di conoscenze e di abilità personali, l’aumento della consapevolezza di sé, la riduzione della solitudine, la maggiore distensione nel rapporto con gli agenti, il miglioramento dei rapporti con i familiari e della relazione tra carcere e territorio, in alcuni casi l’occasione di retribuzione e avviamento a lavoro». Spicca che il 78,3 per cento delle iniziative nasca su proposta delle organizzazioni esterne e la maggior parte delle 180 attività censite sia portata avanti da persone esterne all’amministrazione penitenziaria. I soldi impiegati (3 milioni 109mila euro nel 2017) arrivano per tre quarti dal finanziamento pubblico (totale sui corsi scolastici), ma poi per la realizzazione degli interventi è decisivo il contributo di 619 volontari, coinvolti in circa il 74 per cento delle attività in modo esclusivo per un monte ore dichiarato di circa 36.078, mentre il resto è gestito da 238 persone retribuite dalle organizzazioni per 69.234 ore.
Indicatori che «valorizzano il fondamentale contributo di volontari, organizzazioni non-profit, istituzioni pubbliche e imprese», sebbene queste ultime siano protagoniste solo di un caso su quattro di attività di tipo lavorativo, mostrando «una scarsa interazione e il mancato sfruttamento delle potenzialità del tessuto milanese», nel quale «marginali» appaiono anche Università e Fondazioni. Il 54,4 per cento delle 180 iniziative catalogate sono culturali, educativo-culturali ed espressivo-culturali, il 12 per cento sono formative, di cui metà sono orientamento al lavoro. Solo il 5,5 per cento sono le sportive e ricreative (3,5 per cento), mentre il 5,5 per cento delle scolastiche cataloga solo quelle condotte da strutture formative accreditate. Ed è magari poco noto che 3.650 studenti siano entrati in carcere tramite 50 attività, e ancor più che 56 detenuti abbiano raggiunto 2.163 studenti in 94 eventi nelle scuole. Certo la ricerca ha la forza e il limite di fondarsi su dati e dichiarazioni provenienti dai referenti delle attività trattamentali, per lo più esterni. Ma «il fine ultimo è proprio quello di stimolare, nelle istituzioni pubbliche e nella società, una riflessione informata e consapevole circa la missione del sistema penitenziario e la sua funzione sociale attribuita dalla Costituzione Italiana».